Brevi considerazioni in tema di long-termism, sostenibilità e doveri degli amministratori, anche alla luce della recente proposta di direttiva della Commissione europea in materia di Corporate Sustainability Due Diligence

La crescente attenzione prestata verso la funzione sociale della moderna impresa societaria è culminata, negli ultimi anni, in una serie di iniziative volte a stimolare la discussione in merito all’opportunità di apportare un temperamento al tradizionale paradigma della lucratività, che da sempre rappresenta la “stella polare” di tale fenomeno associativo.
Alla base di un simile (ma, allo stato, ancora solo auspicato) rinnovamento del sistema vi è il concetto di sostenibilità dell’attività d’impresa, esplicantesi, rispettivamente, sotto i profili ambientale, sociale e di governance. L’emergere di criticità di portata globale (tra cui si staglia, anzitutto, il macro-tema dei cambiamenti climatici) rappresenta infatti uno dei fattori che ha determinato il recente affermarsi di un ampio movimento di critica al modello della shareholder primacy, teoria in base alla quale sarebbe l’interesse dei soci ad informare in via esclusiva le decisioni assunte dall’organo amministrativo. Una gestione siffatta dell’impresa, tuttavia, presenterebbe come necessaria e inevitabile conseguenza la produzione di esternalità negative nei riguardi dei soggetti estranei alla compagine sociale, esito che parrebbe essere sempre meno socialmente tollerabile. Il perseguimento dell’interesse dei soci alla remunerazione dell’investimento effettuato si tradurrebbe così in un patologico short-termism, come tale incompatibile con un’esistenza sostenibile dell’impresa.
Sulla base di una diffusa consapevolezza del fatto che le citate sfide globali possano essere affrontate soltanto mediante una mobilitazione di tutte le aggregazioni sociali, si è così incominciato a predicare l’opportunità di adozione di politiche gestorie idonee a contemperare l’interesse dei soci con quello di altri soggetti, estranei agli assetti proprietari dell’ente, i quali, tuttavia, siano soliti trovarsi in condizione di patire, con differenti gradi di intensità in ragione della loro posizione, le conseguenze derivanti dall’esercizio dell’attività d’impresa (cc.dd. stakeholders).
La risonanza di tale movimento è tale che oggigiorno è difficile imbattersi in realtà imprenditoriali che si astengano dal professarsi “socialmente responsabili”, anche in casi in cui l’attività sia esercitata con modalità manifestamente contrarie a un simile – seppur vago – principio comportamentale. In proposito, basti qui ricordare come nello studio sui doveri degli amministratori e la governance sostenibile elaborato da EY per la Commissione europea nel luglio del 2020 venga messa in luce la sempre maggiore propensione delle società quotate europee ad indugiare in politiche di massimizzazione del profitto degli azionisti, la cui spia sarebbe rappresentata dal volume dei dividendi corrisposti e dal crescente fenomeno dell’acquisto di azioni proprie (c.d. buy-back). Una gestione dell’impresa caratterizzata dall’incessante tensione alla soddisfazione di interessi di breve – se non brevissimo – termine è considerata incompatibile non solo con la tutela degli stakeholders, ma anche con riferimento all’interesse stesso, nel lungo termine, della società. Infatti, cedendo alle politiche di prodigalità tanto auspicate dalla base sociale, l’impresa finirebbe per destinare un ammontare sempre più limitato di risorse agli investimenti in ricerca e sviluppo, compromettendo inevitabilmente il futuro posizionamento nel mercato di riferimento e, in definitiva, la propria profittabilità.
Conscia di questo male endemico che da sempre affligge il panorama societario globale, la Commissione europea, nell’ottobre del 2020, ha promosso una consultazione pubblica, conclusasi nel febbraio 2021 con esiti plebiscitari, almeno per quanto attiene all’auspicabilità di adozione – a livello eurounitario – di politiche legislative volte ad astringere gli amministratori di società di capitali al perseguimento di interessi di natura extra-sociale. Data la diffusione del movimento sorto a tutela degli stakeholders, non suscita stupore l’ampiezza della categoria così individuata: la quasi totalità dei partecipanti si è infatti dichiarata favorevole all’incorporazione nel duty of care degli amministratori di una vasta gamma di interessi, tra cui figurano quelli dei dipendenti dell’impresa e dei dipendenti coinvolti nelle catene di fornitura, dei clienti, delle comunità locali a contatto con l’attività esercitata, fino ad arrivare ad una emblematica voce denominata “interests of others”, alla lettura della quale forse più di qualcuno potrebbe essere indotto a recitare l’adagio secondo cui «accountability to everyone means accountability to no one».
I più recenti sviluppi in materia si rinvengono all’interno della proposta di direttiva della Commissione europea in tema di Corporate Sustainability Due Diligence pubblicata il 23 febbraio 2022, ove l’art. 25 è dedicato alla individuazione del nuovo perimetro del dovere di diligenza posto in capo agli amministratori. Questi ultimi, infatti, nel perseguimento dell’interesse sociale, dovranno tenere in considerazione «the consequences of their decisions for sustainability matters, including, where applicable, human rights, climate change and environmental consequences, including in the short, medium and long term».
Al netto dei dubbi che inevitabilmente sono destinati a sorgere in merito al valore precettivo dell’espressione «take into account» (per non parlare di «short, medium and long term»), vanno segnalati due profili di rilievo. In primo luogo, è previsto che i meccanismi di enforcement dei doveri degli amministratori continuino ad operare a livello di discipline nazionali, le quali, pertanto, dovranno essere rimodulate in ragione dell’ampliamento del duty of care così operato. In secondo luogo, la portata della disposizione è limitata agli amministratori delle società europee di cui al par. 1 dell’art. 2 della proposta di direttiva, ossia quelle con più di 500 dipendenti in media e con ricavi netti globali superiori ai 150 milioni di euro (che ammonterebbero, secondo le stime della Commissione, a 9400 unità) ovvero, alternativamente, imprese con più di 250 dipendenti in media e con ricavi netti globali superiori ai 40 milioni di euro, a condizione che almeno la metà di essi sia generata in uno o più settori ad alto impatto specificamente individuati, in cui figurano, tra gli altri, i rami della manifattura tessile, dell’agroalimentare e dell’estrazione di risorse minerarie. Se si tiene conto che il numero di imprese rientranti in questo secondo gruppo è stimato attorno alle 3400 unità, è di tutta evidenza come la portata della proposta di direttiva sia stata sensibilmente ridimensionata rispetto alle previsioni di cui all’art. 2 dell’allegato alla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021, in cui figurava l’inclusione nel perimetro regolatorio anche delle piccole e medie imprese operanti in settori ad alto rischio, senza che venisse operata alcuna limitazione in base a soglie dimensionali quantitativamente determinate.
A quanto pare, nella più recente proposta formulata dalla Commissione, si è ritenuto non conforme al principio di proporzionalità porre in capo a società di dimensioni modeste (ancorché appartenenti a specifici high-risk sectors) doveri didue diligence destinati a rivelarsi particolarmente onerosi. Il riferimento corre agli artt. 4 e ss. della proposta di direttiva, ove figurano, in particolare: i) l’integrazione dei meccanismi di “dovuta diligenza” all’interno delle politiche d’azione dell’impresa (tra cui spicca l’elaborazione di un codice di condotta contenente regole e principi seguiti dalla società e dalle sue controllate); ii) l’identificazione degli impatti negativi (attuali e potenziali), nei riguardi dei diritti umani e dell’ambiente, derivanti dallo svolgimento dell’attività (inclusi quelli delle società controllate e dei business partners lungo la propria catena del valore); iii) l’adozione di apposite misure di prevenzione (ovvero, qualora ciò fosse materialmente impossibile o non attuabile in tempi ragionevoli, di mitigazione) dei menzionati impatti negativi, ivi incluse la formulazione di un “prevention action plan” e la stipulazione di accordi in cui i partner commerciali si impegnino a conformarsi alle prescrizioni contenute nel codice di condotta della società; iv) l’attuazione di misure volte a porre fine agli impatti negativi identificati, anche mediante il pagamento dei danni cagionati alle persone e alle comunità a contatto con l’attività sociale e, qualora gli impatti avversi non fossero prontamente estinguibili, lo sviluppo di un “corrective action plan”, salvo in ogni caso il dovere di temporanea sospensione o di definitiva conclusione dei rapporti commerciali con il business partner che continui a produrre esternalità negative.
Nel complesso, si riscontra una tendenza al progressivo ridimensionamento dell’iniziale rigore della proposta, dato che i doveri di integrazione negli assetti societari delle menzionate pratiche di due diligence graveranno sugli amministratori di un numero limitato di società. Tuttavia, non può essere trascurato come la rilevanza dimensionale delle imprese destinatarie della disciplina possa produrre impatti apprezzabili nel raggiungimento di obiettivi di sostenibilità, se si tiene conto anche del fatto che, in base al testo presentato dalla Commissione, la direttiva sarà applicabile pure nei riguardi di società non europee con ricavi netti superiori a 150 milioni di euro realizzati all’interno dell’Unione (ovvero maggiori di 40 milioni, nel caso in cui almeno la metà di essi sia prodotta in settori ad alto impatto).
Ad ogni modo, non è possibile trarre conclusioni munite del connotato della definitività fintanto che il procedimento legislativo non giungerà all’esito auspicato dalle istituzioni europee, e anche allora, data la natura dello strumento regolatorio impiegato, per poterne misurare la portata e gli effetti bisognerà attendere il recepimento nelle legislazioni nazionali dei singoli Stati Membri. La strada è solo tracciata.
Nicolò Pozzato
Approfondimenti
Aa.Vv., The European Commission’s Sustainable Corporate Governance Report: A Critique, European Corporate Governance Institute, Law Working Paper n. 553/2020, disponibile su ssrn.com
Assonime, Doveri degli amministratori e sostenibilità, Note e Studi 6/2021, disponibile su assonime.it
Cian, Sulla gestione sostenibile e i poteri degli amministratori: uno spunto di riflessione, in ODC, 2021, 1131 ss.
Commissione europea, Study on directors’ duties and sustainable corporate governance, 29 luglio 2020, disponibile su https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/e47928a2-d20b-11ea-adf7-01aa75ed71a1/language-en
Commissione europea, Proposal for a directive on Corporate Sustainability Due Diligence, 23 febbraio 2022, disponibile su https://ec.europa.eu/info/publications/proposal-directive-corporate-sustainable-due-diligence-and-annex_en
Enriques, The european Parliament Draft Directive on Corporate Due Diligence and Accountability: Stakeholder-Oriented Governance on Steroids, in Riv. soc., 2021, 319 ss.
Strampelli, La strategia dell’Unione europea per il capitalismo sostenibile: l’oscillazione del pendolo tra amministratori, soci e stakeholders, in Riv. soc., 2021, 365 ss.