Dal caffè alle stoviglie di design: sempre più società puntano sulla Sostenibilità, tra molte luci e qualche ombra

Sempre più di frequente nei quotidiani attenti alle dinamiche dell’economia e nei magazine di approfondimento finanziario, si dà spazio a notizie e approfondimenti sulle società i cui soci hanno deciso di introdurre nello statuto una o più finalità benefiche a favore dei c.d. stakeholderdell’impresa. Si tratta di benefici che si sviluppano per le finalità più disparate, come nel perseguimento di uno o più effetti positivi (o nella riduzione degli effetti negativi) su persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni coinvolti direttamente o indirettamente dall’attività economica dell’impresa. I settori merceologici in cui operano queste società sono i più varî e spaziano, per fare degli esempi, dall’energetico all’alimentare, passando per la banda larga e le stoviglie di design. La logica è quella di andare incontro alle esigenze, sempre più avvertite a tutti i livelli, dell’ecologia e della sostenibilità d’impresa sotto il profilo tanto ambientale quanto sociale: a partire quantomeno dalla risonanza planetaria del movimento Friday4future (al netto delle considerazioni che possono essere spese – e che non sono mancate – sul movimento in sé) la questione ecologica è diventata di dominio pubblico e non vi è chi non veda come, oltre alle agende politiche di ogni governo, anche il mondo dell’impresa abbia accelerato verso una strada finora percorsa soltanto da uno sparuto gruppo di pionieri .
Cos’hanno in comune, in questo quadro, società del tipo: Danone, Alessi e Illy?
Sono tutte società che di recente sono diventate «società benefit» (SB).
Dal gennaio 2016 l’Italia ha introdotto, prima in Europa e seconda al mondo dopo gli USA, la figura della «società benefit» per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi nel mercato rispetto ai competitor attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa, proteggendo al contempo la missione dell’impresa sia sotto il profilo industriale che finanziario.
Con la legge istitutiva delle SB, attuando di fatto sul piano normativo la più matura riflessione in tema di responsabilità sociale d’impresa, il legislatore non ha istituito un vero e proprio nuovo schema societario, bensì previsto delle regole specifiche che la società deve seguire per poter esporre al mercato il proprio titolo «benefit», come se fosse un “marchio di qualità”. Questo modello di società non gode, peraltro, di incentivi di tipo economico o fiscale, per cui l’unico vantaggio che ne trae è proprio quello di presentarsi sul mercato come soggetti particolarmente credibili e virtuosi. Ad oggi, pur nel contesto economico che è a tutti noto, si contano più di cinquecento imprese italiane che hanno già scelto questo format, il che dimostra che anche quest’unico motivo è di per sé più che rilevante.
Le SB, in particolare, per ottenere questo status, devono perseguire, tramite un’espressa previsione statutaria, le citate «finalità di beneficio comune» in modo responsabile, sostenibile e trasparente. La loro gestione impone ai manager il bilanciamento tra l’interesse dei soci – generare profitto – e l’interesse della collettività previsto ex novo nello statuto. Per legge le SB devono inoltre nominare un componente del management investendolo della responsabilità dell’impatto dell’azione aziendale riguardo a queste finalità benefiche. Informazione quest’ultima che sarà poi verificabile dal mercato, giacché la legge impone alle SB di riportare in maniera trasparente e completa le proprie attività attraverso una relazione annuale di impatto che descriva sia le azioni svolte sia i piani e gli impegni per il futuro.
Nelle intenzioni del legislatore, le SB rappresentano un’evoluzione del concetto stesso di impresa. Mentre le società tradizionali presentano l’unico scopo di distribuire dividendi agli azionisti, infatti, le società benefit sono espressione di un paradigma più evoluto, divenendo uno strumento legale che crea una solida base per l’allineamento della missione nel lungo termine e la creazione di valore condiviso. Non si tratta, è doveroso precisare, di «imprese sociali» in senso stretto o di una evoluzione del mondo del no-profit, ma di una trasformazione positiva dei modelli dominanti di impresa a scopo di lucro, per renderli più adeguati alle sfide e alle opportunità dei mercati del ventunesimo secolo.
Le criticità tecniche per far coesistere accanto allo scopo di lucro delle altre finalità di «beneficio comune» sono più d’una, ma è opportuno che vengano risolte – in parte già lo sono state – dalla dottrina specialistica .
Ciò che è maggiormente rilevante ai presenti fini, invece, è evidenziare una lacuna strutturale del modello italiano, in modo da gettare luce su alcune delle critiche che da più parti sono state sollevate, monitorare l’andamento del fenomeno ed eventualmente porvi rimedio. La lacuna in discorso, segnatamente, risiede nella differenza che corre tra il modello italiano delle società benefit e quello americano delle benefit corporation (B-Corp), da cui il primo ha tratto ispirazione: se per le società domestiche è sufficiente il rispetto formale del modello legale per vedersi attribuito un marchio spendibile nel mercato, oltre oceano il titolo viene invece attribuito da una società terza e indipendente a valle delle attività poste in essere, come se fosse una sorta di certificato delle opere effettivamente compiute, il quale, oltre ad essere difficile da ottenere (soltanto al 3% circa dei richiedenti viene concesso) può anche essere revocato se gli standard annunciati non vengono rispettati.
Il modello italiano, dunque, è meno trasparente per il mercato di quello statunitense e si presta a un utilizzo strumentale là dove i soci (shareholder) volessero realizzare un semplice make-up con finalità di marketing senza in realtà perseguire gli effetti sperati.
I precedenti virtuosi sono pur presenti, va detto; su tutti, il caso di una storica azienda triestina può essere portato come esempio paradigmatico e particolarmente virtuoso: Illy caffè s.p.a., dopo essersi dotata delle necessarie previsioni statutarie che la rendono una società benefit e di diritto italiano, è stato la prima azienda italiana a ottenere anche la certificazione B-Corp nel mercato americano, dimostrando di aver iniziato ad attuare un impegno serio e strutturato per migliorare la qualità della vita dei propri stakeholder. In particolare, la filiera sostenibile di Illy caffè si basa su un sistema di relazioni dirette con i propri fornitori che si regge su quattro pilastri: (1) selezionare e lavorare direttamente con i migliori produttori di Arabica; (2) trasferire ai produttori la conoscenza, formandoli a una produzione di qualità nel rispetto dell’ambiente attraverso l’Università del Caffè e il lavoro quotidiano sul campo con agronomi specializzati; (3) ricompensarli per la qualità prodotta, pagando loro prezzi superiori a quelli di mercato, stimolando il miglioramento continuo e rendendo sostenibile la produzione; (4) creare una comunità di produttori che si incontri virtualmente nella piattaforma a loro dedicata.
Sono questi alcuni dei valori principali che hanno motivato, tra l’altro, anche il riconoscimento del certificato americano di B-Corp alla SB di diritto italiano: la catena di fornitura, l’attenzione agli impatti ambientali e la valorizzazione delle risorse.
D’altro canto, il rischio che con la modifica statutaria si persegua un’operazione meramente di facciata è sempre dietro l’angolo, mercé la vaghezza di alcune clausole inserite negli statuti delle società di recente salite sul carro della sostenibilità.
Alla fine, come sempre d’altronde nel mondo degli affari, la differenza la faranno gli amministratori che saranno chiamati a portare a compimento le finalità programmatiche consacrate dai soci nella carta fondamentale dell’impresa; pertanto, di per sé, non è detto che pure a fronte di una dichiarazione vaga e di poca sostanza l’azione concreta che ne scaturisca in concreto non possa essere più che encomiabile.
Leggere però nello statuto di una società italiana nota in tutto il mondo per la produzione di stoviglie dal design particolarmente curato (tanto che alcuni dei suoi prodotti sono esposti alla Permanent Design Collection del MoMA di New York) che il «beneficio comune» in ottica di sostenibilità sarebbe quello di «portare arte e poesia nella produzione industriale», qualche sospetto lo desta: il rischio è quello di mascherare il core business dell’azienda, che in questo caso è proprio ciò che giustifica il prezzo maggiore dei suoi prodotti rispetto alla concorrenza, e quindi il maggior margine di ricavo, in un’attività benefica. L’operazione, se si limitasse a questo, si commenterebbe da sé.
La strada, in ogni caso, è tracciata e il percorso sembra portare verso un futuro maggiormente equo e sostenibile. Affinché il prezioso strumento delle società benefit non perda di efficienza, due sono le vie da percorrere nel futuro secondo i maggiori studiosi del settore: da un lato il legislatore dovrà continuare a tracciare regole che incentivino la promozione di finalità benefiche, contestualmente precludendo quelle di impatto certamente negativo, dall’altro i consumatori (dunque tutti noi) dovranno (dovremo) iniziare a (o proseguire nel) maturare una coscienza critica maggiore, orientando le proprie spese anche in ragione della migliore trasparenza che i produttori sono chiamati a adottare.
Mattia Facci
Approfondimenti:
Aa. Vv., Le società benefit, in Orizzonti del Diritto commerciale, 2/2017 (contributi di C. Angelici, F. Denozza – A. Stabilini, G. Marasà, S. Rossi, M. Stella Richter jr, A. Zoppini).
- Stella Richter jr., Corporate social responisibility, social enterprise, benefit corporation: magia delle parole?, in Vita notartile, 2017, 953 ss.
Sito web: https://www.societabenefit.net/