Come si misura la sostenibilità di un investimento? Alcune considerazioni sul rating “etico”

Lo si ammette, “finanza” e “sostenibilità” non sono termini facilmente accostabili. Eppure, la “finanza sostenibile” non è un mondo ideale, né un settore di nicchia, bensì una realtà concreta che va assumendo negli anni un peso non indifferente nel contesto finanziario. Secondo l’ultimo rapporto OCSE, relativo all’anno 2019, il volume degli investimenti “socialmente responsabili”, gestiti quindi secondo strategie volte a premiare scelte dal positivo impatto ambientale e sociale, ha toccato la soglia di 12 migliaia di miliardi di dollari negli USA e di ben 14 migliaia di miliardi di dollari nell’area UE; dati inevitabilmente destinati a lievitare in seguito alla pandemia da COVID-19, che ha avuto l’effetto di sensibilizzare maggiormente gli investitori sull’importanza della questione “sostenibilità”.
Un recente studio commissionato da BNP-Paribas sulla rilevanza delle considerazioni sociali nel processo decisionale in materia di investimenti, ha evidenziato che ben l’81% degli intervistati tra fondi d’investimento ed intermediari finanziari europei tiene conto dei criteri ESG (Environment, Social, Governance), ovverosia dei fattori di rischio connessi a problematiche ambientali, sociali, nonché al buon governo dell’impresa. Pressoché ogni fondo d’investimento, a prescindere dal fatto che persegua dichiaratamente l’obbiettivo di creare un valore sociale e possa di conseguenza qualificarsi come fondo “socialmente responsabile”, ha dunque provveduto ad integrare i propri processi di valutazione e gestione del rischio con l’analisi di questi specifici fattori, capaci di incidere sul rendimento dell’investimento nel lungo periodo.
Ci si pone tuttavia un interrogativo: come si misurano le implicazioni sul piano ambientale e sociale di un investimento?
La risposta parrebbe apparentemente semplice: verificando quale sia l’atteggiamento dell’azienda rispetto alle sfide ambientali (Environment), se essa si faccia promotrice dei diritti umani, come valorizzi il proprio capitale umano (Social) e, infine, se l’agire degli organi amministrativi e di controllo sia ispirato a principi di correttezza e legalità (Governance).
Un ulteriore dubbio sorge allora spontaneo: quali sono i parametri da rispettare affinché un investimento possa dirsi “sostenibile”?
Qui tutti i nodi vengono al pettine, perché, a differenza dei rischi finanziari, i c.d. rischi ESG non possono essere stimati in maniera univoca, non essendovi in radice una definizione universalmente accettata di “investimento sostenibile”.
Nella prassi, i fondi d’investimento selezionano le imprese meritevoli affidando l’attribuzione di uno score etico a società esterne, le quali adottano metodologie e standard estremamente differenti tra loro. L’impatto dell’investimento sotto il profilo ESG viene misurato in base a criteri che rispecchiano l’interpretazione data al concetto stesso di “sostenibilità” da parte della singola agenzia di rating oppure dello stesso committente (il fondo d’investimento), che può indicare al consulente quali aspetti considerare (e quali escludere) ai fini dell’indagine.
In definitiva, il rating conferito all’esito della fase valutativa ad un determinato prodotto finanziario (azioni, obbligazioni) non esprime un giudizio oggettivo sulla sua “sostenibilità”, ma sul rispetto di quelli che nell’opinione dell’investitore o dell’agenzia sono i requisiti caratterizzanti un investimento sostenibile. In molti casi, inoltre, il metodo utilizzato per formulare tali giudizi non è reso pubblico, il che rende difficoltosa la comparazione dei risultati; a ciò si aggiunga che i processi di valutazione possono essere influenzati da situazioni di conflitto d’interesse, dal momento che è consuetudine diffusa che le agenzie di rating prestino servizi di consulenza in favore degli stessi soggetti valutati.
Nonostante questa mancanza di uniformità abbia portato a descrivere l’ecosistema della finanza sostenibile come un vero e proprio “far west”, si possono riscontrare anche in questo settore esperienze meritevoli di attenzione. E’ il caso, ad esempio, dell’agenzia Standard Ethics, con sede a Londra, unica società ad occuparsi in via esclusiva dell’assegnazione e del monitoraggio dei rating di sostenibilità, su richiesta degli stessi emittenti. Due sono in particolare i profili sotto i quali la Standard Ethics si distingue dai principali competitor europei: l’indipendenza ed il metodo.
Al fine di preservare la propria autonomia, l’agenzia non svolge attività di consulenza in favore dei soggetti valutati, non accetta procedimenti di certificazione esterna che ne limitino l’indipendenza dal punto di vista metodologico, né fa parte di lobby, enti di certificazione o gruppi di discussione ove vengano elaborate proposte da sottoporre alle istituzioni internazionali. Regole tutt’altro che scontate per un’agenzia di rating e senz’altro da apprezzarsi nell’ottica di garantire la terzietà di enti chiamati a ridurre le asimmetrie informative tra emittenti ed investitori.
Per quanto attiene al metodo, invece, la società dichiara espressamente di rinunciare a qualsiasi definizione preconcetta e soggettiva di “investimento sostenibile”, preferendo condurre le proprie valutazioni sulla base di standard di sostenibilità derivati da quelli che sono i principi espressi dalle organizzazioni internazionali che promuovono la sfida della crescita sostenibile (Nazioni Unite; OCSE; Unione Europea; Consiglio d’Europa).
Come rimarcato dalla stessa Standard Ethics nel documento “Pietre Angolari della Sostenibilità”, non sono infatti le banche, i fondi d’investimento e le imprese a dover decidere che cosa debba essere considerato sostenibile, bensì le istituzioni internazionali democratiche partecipate dalle nazioni, in quanto “se si parla di Sostenibilità, occorre avere chiaro che si tratta – sia per le banche, sia per le imprese – di allinearsi volontariamente ad uno sforzo collettivo e planetario. Di allinearsi a strategie e obbiettivi ben definiti”. In definitiva, solo verificando il grado di adesione dell’emittente alle strategie e politiche di sviluppo sostenibile condivise a livello globale, risultanti ad esempio dagli Accordi internazionali di Parigi sul cambiamento climatico, dalle Linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali, dalla regolamentazione Europea e dai trattati del Consiglio d’Europa, è possibile pervenire a risultati trasparenti e, soprattutto, comparabili.
Ciò rende peraltro evidente il ruolo determinante che potrebbero giocare le istituzioni nel rilancio della finanza sostenibile. Non manca infatti la propensione dei mercati a sostenere e finanziare il processo di transizione verso un modello di sviluppo rispettoso delle future generazioni; quello che manca sono degli strumenti precisi che consentano agli operatori finanziari di orientarsi, scremando ciò che è effettivamente sostenibile da ciò che non lo è. Le stesse istituzioni che hanno fissato gli obbiettivi di sostenibilità ed individuato il percorso da intraprendere per realizzarli, sono in possesso delle competenze e dell’autorità per incanalare le risorse finanziarie verso realtà che contribuiscano efficacemente al raggiungimento di questi risultati, stabilendo un quadro di regole comuni atte a cristallizzare i requisiti minimi da soddisfare perché un prodotto finanziario possa fregiarsi del marchio “sostenibile”.
In questa direzione, in attuazione delle linee guida definite nell’Action plan on sustainable finance del 2018, si è mossa di recente l’Unione Europea. In particolare, il Regolamento Tassonomia ha il merito di fare chiarezza su quali siano le condizioni per commercializzare un prodotto finanziario come “ecosostenibile”, vincolando inoltre i partecipanti ai mercati finanziari ad informare gli investitori circa grado di allineamento del prodotto offerto ai parametri comunitari.
Sono misure senz’altro incoraggianti, sebbene insufficienti: da una parte, infatti, vengono forniti agli investitori strumenti di misurazione del solo impatto ambientale, trascurandosi del tutto i fattori sociali e di governance, dall’altra la normativa UE rappresenta la risposta di una sola parte del mondo ad un problema che esige un coordinamento a livello globale.
Francesco Marotta
Approfondimenti
Capriglione, Il dopo COVID-19: esigenza di uno sviluppo sostenibile, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2020, 5 – Supplemento, p. 26 ss.
CONSOB, Finanza sostenibile, reperibile all’indirizzo: https://www.consob.it/web/area-pubblica/finanza-sostenibile
Del Giudice, La finanza sostenibile. Strategie, mercato e investitori istituzionali, Bologna, 2019.
Fondazione Finanza Etica, La finanza etica e sostenibile in Europa, 2020, reperibile all’indirizzo: https://finanzaetica.info/wp-content/uploads/2020/02/2020-RAPPORTO-IT.pdf
La Torre, Finanza etica e microfinanza, voce del XXI Secolo, Treccani, Roma, 2009
United Nations Environment Programme Finance Initiative, Fiduciary duty in the 21st century, 2019, reperibile all’indirizzo: https://www.unepfi.org/publications/investment-publications/fiduciary-duty-in-the-21st-century-final-report/
