Verso la regolamentazione della sostenibilità: alcune riflessioni intorno alle recenti modifiche alla Costituzione Italiana e alla Proposta di Direttiva europea sulla dovuta diligenza

Come noto, il tema della sostenibilità dello sviluppo economico, specialmente nella accezione della gestione dei cambiamenti climatici, sta impegnando l’agenda politica dei principali Paesi del pianeta con sempre maggiore intensità.
Fra le linee evolutive del sistema, si registra, in particolare, una crescente tendenza alla regolamentazione della sostenibilità, ossia alla disciplina dei rapporti giuridici con l’obiettivo di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere quelli delle generazioni future (concetto spesso riassunto nell’acronimo “ESG”). Basti pensare, per fare qualche esempio, alla loi pacte francese (2019), alla codificazione delle società benefit in Italia (2015), e, già nel 2006, alla Section 172 del Companies Act inglese.
Proprio nel solco di questa tendenza si collocano due recenti interventi normativi che riguardano direttamente, nell’un caso, ed indirettamente, nell’altro caso, il nostro Paese: il d.d.l. di riforma costituzionale recante alcune modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana in materia di tutela dell’ambiente, approvato in via definitiva alla Camera in data 8 febbraio 2022, e la Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021, il cui Allegato contiene una Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alla dovuta diligenza e alla responsabilità delle imprese (d’ora in avanti, “Proposta di direttiva”).
Con il primo intervento, in estrema sintesi, viene aggiunto un nuovo comma all’art. 9 della nostra Costituzione, di modo che “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” viene inserita tra i principi fondamentali dalla Carta costituzionale. Inoltre, viene introdotta una riserva di legge per definire i modi e le forme di tutela degli animali. Infine, in materia di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), la riforma introduce due nuovi limiti alla libertà di iniziativa economica, e cioè la salvaguardia della salute e quella dell’ambiente. Ai sensi del nuovo comma 3 dell’art. 41 Cost., inoltre, la destinazione e il coordinamento dell’attività economica pubblica e privata avvengono non solo avendo riguardo ai fini sociali ma anche a quelli ambientali.
Passando al secondo strumento, invece, esso impone a determinate imprese, lungo tutta la loro catena di valore (che include, ad esempio, le società controllate, i fornitori, ecc.), l’obbligo di elaborare – con il coinvolgimento degli stakeholders – e secondo articolate modalità, una “strategia di dovuta diligenza” per il rispetto de “i diritti umani, l’ambiente e la buona governance”. Quest’ultima si traduce in una serie di mappature, processi interni ed assetti organizzativi, oggetto, tra l’altro, di pubblicazione, di valutazione ed eventuale revisione annuale (sempre in coordinamento con gli stakeholders).
Detto obbligo è peraltro assistito da un nutrito apparato sanzionatorio, che rende, tra l’altro, le imprese civilmente responsabili in caso di “qualsiasi danno derivante da impatti negativi effettivi o potenziali sui diritti umani, sull’ambiente o sulla buona governance che esse, o imprese da esse controllate, hanno causato o cui hanno contribuito con atti od omissioni” (art. 19, par. 2).
Cosa accomuna questi due recenti strumenti in punto di regolamentazione della sostenibilità?
In primo luogo, può affermarsi che entrambi sono espressione di quella tendenza del sistema al progressivo passaggio, in punto di sostenibilità, dalla regolamentazione soft, da intendersi come insieme di regole e principi dal carattere non vincolante e oggetto di adesione volontaria da parte dei vari soggetti giuridici, a quella hard, ovvero una regolamentazione attraverso norme giuridiche dal carattere (necessariamente) obbligatorio. D’altra parte, è la stessa Proposta di direttiva, al considerando 4, a specificare che essa si fonda sulla premessa che gli strumenti di soft law attualmente a diposizione delle imprese si sono dimostrati del tutto inefficaci.
In secondo luogo, entrambi (con la precisazione di cui infra) sono espressione di quella ulteriore tendenza a “puntare” sull’impresa e sulla sua gestione per perseguire ed attuare gli obiettivi ESG (o, se si preferisce, la tutela dei diritti umani, dell’ambiente e della buona governance), sulla base del duplice presupposto, allora, che, da un lato, sono per lo più le imprese ed il loro sistema a collidere con tali obiettivi (o quanto meno ad impattarli) e, dall’altro lato, che la (grande) impresa ha assunto, con la globalizzazione, una “forza” tale da supplire all’inerzia ed incapacità degli Stati.
Ciò, perlomeno, se si accoglie una lettura dell’art. 41, comma 2, Cost. (sui limiti alla libertà di iniziativa economica privata, specialmente con riguardo al limite della “utilità sociale”) per la quale esso conterrebbe una norma di carattere non meramente programmatico (rivolta, cioè, solamente al legislatore, il quale sarebbe tenuto a individuare e regolare i limiti alla libertà di iniziativa economica privata, fermo restando che tutto ciò che rientra entro detti limiti sarebbe da considerarsi perfettamente legittimo), ma di carattere precettivo: una norma, cioè, rivolta direttamente agli operatori del mercato, i quali dovrebbero (auto)limitarsi in modo che l’attività economica non risulti concretamente in contrasto con l’utilità sociale, la dignità umana, l’ambiente, e gli altri limiti previsti all’art. 41, comma 2, Cost. Il “come”, poi, è tutto da definire.
In ogni modo, rimane da chiedersi se – restando sul piano della politica del diritto – sia “costituzionalmente” opportuno che le scelte che attengono alla selezione degli interessi collettivi da tutelare e alle modalità di risoluzione dei conflitti (eventuali) fra gli stessi – implicando decisioni di carattere politico – vadano affidate, nei Paesi di democrazia rappresentativa, a soggetti che fondano direttamente o indirettamente la loro legittimazione sul voto espresso dall’elettorato, o, piuttosto, alle imprese (anche private); sorge il dubbio, in altri termini, se sia adeguato che lo Stato “passi il testimone” della salvaguardia dei valori ESG direttamente alle imprese (e, dunque, ai loro managers o ai loro azionisti).
Giulia Ballerini
Approfondimenti
Cian, Principi dell’ordinamento giuridico-economico e sviluppo sostenibile in Italia e Austria, in corso di pubblicazione su Nuove leggi civ., 1/2022
European Company Law Experts Group, The European Parliament’s Draft Directive on Corporate Due Diligence and Corporate Accountability, in Riv. soc., 2021, 276 ss.
Macchi, C. Bright, Hardening Soft Law: the Implementation of Human Rights Due Diligence Requirements in Domestic Legislation, in Legal Sources in Business and Human Rights – Evolving Dynamics in International and European Law, a cura di M. Buscemi, N. Lazzerini, L. Magi, D. Russo, Brill, 2020, 218 ss.
Marchetti, Il bicchiere mezzo pieno, in Riv. soc., 2021, 336 ss.
Niro, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, 2006, sub art. 41, 846 ss.
Sacchi, La capacità propulsiva della s.p.a. quotata è andata esaurendosi?, in ODC, 2021, 581 ss.
U. Tombari, La Proposta di Direttiva sulla Corporate Due Diligence e sulla Corporate Accountability: prove (incerte) di un “capitalismo sostenibile”, in Riv. soc., 2021, 375 ss.